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Il Partito Repubblicano, la Pillola e il voto delle Americane

7 Nov

Il mio articolo pubblicato su Ingenere.

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I risultati delle elezioni di medio termine negli Stati uniti consegnano al partito repubblicano la maggioranza al senato e confermano quella alla camera. È presto per avere un’analisi del voto tale da identificare se e quanto la strategia usata dai repubblicani abbia influito sul voto. Di vero al momento c’è che per la prima volta al congresso siedono cento donne. Un dato senza precedenti. Non solo elette ma anche elettrici: il partito repubblicano ha investito molte energie per guadagnare il voto delle americane, visto come particolarmente risolutivo in quegli stati dove l’esito elettorale era incerto. Dopo poche settimane dall’uscita di un libro che ne racconta la rivoluzionaria scoperta, la pillola anticoncezionale ha trovato nuovi improbabili ammiratori nel partito repubblicano, in particolare in vista delle elezioni di medio termine che si sono tenute martedì 4 novembre negli Stati uniti. Nelle loro campagne elettorali i candidati repubblicani di almeno cinque stati si sono espressi in favore dell‘inserimento della pillola tra i farmaci da banco (per i quali non è quindi necessaria la ricetta medica). Una svolta non da poco per un partito socialmente conservatore e tradizionalmente scettico su molti temi legati alla sessualità, dall’educazione sessuale, alla contraccezione e, naturalmente, all’aborto.

L’inversione di tendenza è stata interpretata dai membri del partito democratico come parzialmente (o unicamente) strategica, finalizzata a attrarre un voto femminile che da anni sembra appannaggio del partito democratico. Secondo un sondaggio di agosto del Wall Street Journal (wsj) i repubblicani erano indietro di ben 14 punti percentuali sui loro avversari nell’elettorato femminile, riconfermando una tendenza che li aveva penalizzati già nelle ultime due elezioni. “Gli elettori sono troppo intelligenti per questi trucchetti. I repubblicani sanno di avere un problema e continuano a pensare che la soluzione sia cosmetica”, dichiara al wsj Marcy Stech, portavoce di Emily’s List, un’organizzazione che si adopera per formare e far eleggere donne all’interno del partito democratico americano, raccogliendo fondi per le loro campagne e unificando l’elettorato femminile intorno a loro.

Emily’s List non è la sola a essersi scagliata contro il partito repubblicano per questo cambiamento d’opinione. Planned Parenthood, un’organizzazione senza fini di lucro che offre servizi di salute sessuale e riproduttiva, spesso nel mirino dei conservatori in quanto fornitrice di servizi di aborto, definisce come possibilmente dannosa la proposta dei Repubblicani. “Proprio quando le assicurazioni sanitarie iniziano a coprire il costo della pillola anticoncezionale” spiega Planned Parenthood in uno spottelevisivo “Thom Tillis – portavoce e candidato al senato per il North Carolina per il partito repubblicano – dice di no: sono le donne a dover pagare 600 dollari l’anno”. Il prezzo della pillola anticoncezionale, qualora venisse qualificata come farmaco da banco, si calcolerebbe infatti intorno ai 600 dollari l’anno, un costo proibitivo per le donne a basso reddito, che oggi, grazie all’approvazione della riforma della salute Affordable Care Act (comunemente chiamata Obamacare), possono ricevere la pillola e altre forme di contraccezione gratuitamente.

Anche John C. Jennings, Presidente del Congresso Americano degli Ostetrici e Ginecologi (Acog), ha espresso qualche dubbio. In una dichiarazione rilasciata a settembre Jennings dichiara che, in principio “Acog è favorevole a rendere i contraccettivi orali disponibili al banco.” Poco dopo, però, aggiunge: “Naturalmente, il costo continua ad essere un fattore importante per chi fa un uso costante della contraccezione, e molte donne semplicemente non possono permettersi i costi di ticket associati con i contraccettivi, da banco o no. Ecco perché Acog sostiene fortemente la disposizione che impone totale copertura assicurativa per gli anticoncezionali”, come disposto dall’Obamacare. Una dichiarazione che non sarà piaciuta ai repubblicani, che hanno fatto della critica all’Obamacare uno dei cavalli di battaglia delle ultime elezioni, in molti casi proprio opponendosi al fatto che molti datori di lavoro si troverebbero, nella loro interpretazione, a dover pagare la copertura assicurativa per servizi, primo tra tutti quelli contraccettivi, che andrebbero contro i loro valori religiosi.

Ma è evidente che il partito repubblicano ha fatto molti sforzi per avvicinare e conquistare il voto femminile. Secondo un sondaggio della Associated Press, uscito a meta ottobre, questa strategia avrebbe già dato i suoi frutti: mediamente e a livello nazionale, il partito repubblicano avrebbe infatti superato di due punti percentuali il partito democratico quanto a intenzioni di voto delle donne, piazzandosi al 44% contro il 42% dei democratici. La cosa certa è che il voto delle americane, tradizionalmente meno ideologizzato e più variabile, sembra assumere un’importanza crescente ad ogni tornata elettorale. Il partito democratico lo ha capito anni fa e ha fatto di temi quali la salute (inclusa la salute sessuale e riproduttiva) e la maternità, tradizionalmente cari all’elettorato femminile, cavalli di battaglia importanti. Anche il partito repubblicano se n’è accorto si è dato da fare per colmare il gap.

Il cimitero dei feti e quello che non si dice sull’aborto

1 Nov

Anni fa partecipai a una conferenza sull’aborto, organizzata dall’Università di Princeton. L’obiettivo della conferenza era semplice e allo stesso tempo estremamente ambizioso: far sedere intorno a un tavolo leader d’opinione del movimento per la vita e quelli per la difesa dei diritti sessuali e riproduttivi. Farli parlare. Rendere più umano e meno astratto il dibattito, moderandone i toni. Mettere insieme tutti i pezzetti del mosaico per avere una migliore visione comprensione del fenomeno dell’aborto.

Di conferenze di questo tipo, forse, avremmo bisogno anche in Italia e credo che ne siano una prova le polemiche seguite alla delibera della giunta di Firenze, che permetterebbe la creazione di un’apposita area nel cimitero pubblico di Trespiano per seppellire i feti (a partire dalla ventesima settimana) e i bambini non nati (cioè quei feti morti oltre la 28esima settimana di gravidanza).

Prima di tutto lasciatemi fare un chiarimento. Io sono una convinta sostenitrice della necessità di avere norme che garantiscano l’aborto legale, sicuro e gratuito in tutti i Paesi. Questo è un tema in cui ho lavorato per anni, appoggiando organizzazioni latinoamericane che facevano advocacy per ottenere il diritto all’aborto laddove questo diritto non esisteva.

Capisco quindi molto bene il timore che una delibera di questo tipo possa rappresentare un riconoscimento, in certo senso, del diritto di cittadinanza del feto e credo che tale riconoscimento potrebbe portare a conseguenze estremamente pericolose quanto al diritto delle donne non solo di abortire, ma di decidere del proprio corpo durante la gravidanza, come scrivevo mesi fa.

Capisco anche, però, i sentimenti di quelle madri, alcune di loro mie amiche, per cui è importante poter vedere una piccola lapide vicino ai resti del proprio bambino morto in utero nel secondo o terzo trimestre (ben oltre il tempo lecito di 90 giorni per l’aborto nel nostro Paese).

Non mi esprimo, quindi, in questa occasione, sul merito di questa normativa, ma sul tono del dibattito che ne è scaturito. Mi pare preoccupante la dicotomia che sembra delinearsi nelle polemiche seguite al caso del cimitero dei feti. Sembra quasi che da un lato ci siano le donne che abortiscono (malafemmine, femministe, atee o tutte e tre le cose) dall’altro le madri, magari anche quelle madri che hanno vissuto il trauma dell’interruzione involontaria della gravidanza. I diritti delle une e quelli delle altre, in lotta.

La realtà è ben diversa. Secondo uno studio del Guttmacher Institute di qualche anno fa, confermato da uno studio più recente, nel nostro Paese ad abortire sono in prevalenza donne tra il 25 e 35 anni, coniugate e già madri di uno o più figli che, rimaste incinta per una ragione o l’altra, non vogliono o possono portare avanti una seconda o terza gravidanza di cui conoscono perfettamente le implicazioni, visto che hanno già avuto dei figli. Anche queste forse sono le donne che desiderano esista un cimitero dei feti per potervi piangere il frutto di altre gravidanze, desiderate e involontariamente interrotte.

Mi pare quindi che il discorso sull’aborto migliorerebbe se riuscisse a raggiungere una dimensione più umana, vicina alle donne reali e alle loro necessità, che nono sono sempre le stesse, ma cambiano nel corso della vita al cambiare delle loro circostanze. Migliorerebbe anche se, invece si ossessionarci sui feti che non possono parlare, riuscissimo a concentrarci sulle donne e quello che chiedono dai servizi di salute per migliorare la loro salute, mentale e fisica, informandole sulle proprie opzioni e, soprattutto, stimandole abbastanza da rispettare le loro decisioni, senza doverle sempre leggere in una chiave politico-ideologica.

Allora, forse, riusciremmo a essere un Paese con servizi di salute più umani e compassionevoli, che servono le donne senza etichettarle come madri, oppure malafemmine.

Beatriz, Karina e il diritto alla vita

27 Mag

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Quando sono stata in El Salvador tre anni fa, in prigione c’era Karina Climaco, giovane madre di due bambini, condannata a trent’anni di carcere con l’accusa di aver cercato di procurarsi un aborto quando in attesa del terzo. Dopo sette anni di carcere, fu liberata, principalmente grazie alla pressione delle ONG femministe salvadoregne che riuscirono a dimostrare che si era trattato di un aborto spontaneo e non provocato. Se così fosse stato, Karina in prigione ci sarebbe rimasta, come decine di altre donne salvadoregne che dall’ospedale vengono portate in manette al carcere, quando c’è anche solo il sospetto di un’interruzione della gravidanza volontaria e lo stesso succede ai medici che si prestano ad aiutarle. Anche quando la gravidanza è frutto di violazione, incesto, mette a rischio la vita della donna o non è viabile, perché’, per esempio, extrauterina.

Oggi, a rischiare non il carcere ma la vita è “Beatriz” (uno pseudonimo), una donna di 22 anni con insufficienza renale e lupus, incinta di un feto acefalo, cioè senza cervello e quindi impossibilitato a sopravvivere fuori dall’utero. La salute e la vita di Beatriz sono a rischio a causa di questa gravidanza eppure anche così, le corti hanno impedito ai dottori di aiutarla ad abortire, di fatto condannando lei a morte (o a gravissimi danni fisici), senza comunque poter garantire una vita al feto. Questo succede in America Latina, ma non solo. Ben più vicino, qui in Europa c’è stata Savita, morta l’anno scorso in Irlanda perché’ i medici si sono rifiutati di interrompere la sua gravidanza, nonostante sapevano che le avrebbe costato la vita.

Domani, purtroppo, sarà la volta di qualche altra donna, a causa di leggi che rendono l’aborto illegale o lo limitano attraverso nuove scappatoie, sempre più presenti anche in Italia, quali l’obiezione di coscienza e una nuova e preoccupante filosofia giuridica creatasi intorno ai supposti diritti del nascituro.

Le donne che hanno lottato per liberare Karina le ho conosciute, con la loro passione e la voglia di lasciare una società più giusta alle loro figlie. Femministe e partigiane della guerra civile che hanno lottato e perso la battaglia per la legalizzazione dell’aborto. Donne con mariti e figli quasi tutte, che vogliono che la maternità sia una scelta e non un’imposizione e che oggi si battono per affermare il diritto alla vita di Beatriz e decine di altre donne.

 

 

Quando i nostri corpi diventano solo incubatrici

21 Gen

Laura Pemberton era incinta del suo secondo figlio e voleva partorirlo “naturalmente”, senza cesareo. Il primo figlio lo aveva avuto con un taglio cesareo, ma questa volta era convinta fosse preferibile dare alla luce vaginalmente, come suggerito da una larga parte della comunità medica. Accompagnata da un’ostetrica, Laura aveva iniziato le doglie, quando la polizia arrivò a casa sua e la costrinse con la forza a recarsi all’ospedale, dove, contro la sua volontà, le fu fatto un taglio cesareo.

A chiamare la polizia e ottenere il mandato di cattura erano stati i dottori dell’ospedale, dove lei era in cura. I giudici giustificarono la misura adducendo che “il diritto del feto prevale sul diritto della madre di decidere sulla propria cura medica” e che “il diritto dello stato di preservare la vita del feto prevale sul diritto all’integrità fisica della madre”.

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