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Barilla e quell’Italia (brutta e piccolina) che non esiste

1 Ott

Un mio articolo sull’Huffington Post.

Forse Guido Barilla non se n’è accorto, ma la famiglia tradizionale a cui pensa lui, la famiglia sacrale delle sue pubblicità, non esiste e non è mai esistita.

Non solo perché gli italiani non vivono in mulini, ma perché le famiglie italiane non fanno più figli. Il 25% delle donne italiane termina la “carriera riproduttiva” (perdonatemi: scientificamente si dice cosi) senza aver avuto figli.

Le famiglie italiane non sono giovani, ma vecchie, con meno bambini e più anziani seduti a tavole sempre più piccole e povere. Le donne italiane non sono tanto sorridenti quanto frustrate, accollandosi cinque ore di lavoro domestico in più rispetto ai loro mariti. Una donna su tre è vittima di violenza domestica.

La famiglia tradizionale e sacrale di cui parla Barilla è quindi un’illusione, ma non solo. È anche una trappola: trappola di genere, perché costringe le donne a confrontarsi con modelli di femminilità e maternità impossibili. Trappola di intolleranza, perché ignora le famiglie omosessuali e esclude le persone “diverse” in colore e origini etniche. Infine, è una trappola di disumanità, perché dimentica (come sempre e dappertutto) le persone disabili.

Come mi raccontava Laura Corradi qualche mese fa: “la maggior parte delle pubblicità – sulle quali si spendono milioni di euro (che noi paghiamo nel prezzo dei prodotti) è ancora marcatamente fondata su stereotipi di genere, razza e sessuali – un mondo dove tutti sono giovani, ricchi e spensierati. E fanno ancora uso sproporzionato di corpi (anche di bambini/e) e sentimenti – anche attraverso l’ipnosi […]. Si tratta di un consumo obbligatorio di immagini e suoni a cui siamo sottoposte/i quotidianamente e continuativamente, il che implica un livello serio di manipolazione di massa specie nei confronti delle persone giovani.”

Guido Barilla, quindi, non è purtroppo solo, ma in ottima compagnia nella volontà di proporre agli italiani degli ideali a cui ispirarsi che sono non solo più piccoli e più semplici, ma anche più meschini di quanto non sono le nostre realtà. I mulini a vento contro cui lotta Barilla sono quindi quelli creati solo da ristrettezza mentale e ipocrisia.

Seppur con tutti i loro problemi e le loro difficoltà, le famiglie italiane sono spesso più belle di quelle della pubblicità Barilla, perché più diverse, tolleranti e umane. Anche la politica, uno dei settori tradizionalmente più conservatori della nostra società, ha iniziato ad accorgersene e rispecchiare questa diversità. Le pubblicità ci arriveranno anche loro, anche se in ritardo. Certo, ci arriverebbero prima se esistessero delle regolamentazioni dei messaggi pubblicitari, come quelle descritte da Elisa Giomi su InGenere.

Nel frattempo, non ci resta che usare il potere che abbiamo, non solo boicottando Barilla (e gli altri produttori che riproducono nei loro spot simili visioni similmente distorte di famiglia e società), ma anche e soprattutto punendo quei partiti politici che, nelle loro pratiche e nei loro messaggi, vorrebbero far diventare il nostro paese una brutta copia delle peggiori pubblicità Barilla.

Non sto pensando solo ai lanciatori di banane, ma a chi ignora le donne nei propri programmi politici e a quei politici che credono che il miglior complimento da fare a una donna sia “gnocca”.

Ne abbiamo di cose e persone da boicottare, insomma. Barilla non è che l’inizio.

Donne e equo salario. Alle volte guadagnare di più non conviene

8 Ago

Da un mio articolo su iMille

Secondo l’ultimo studio dell’Economic and Social Research Council (ESRC) riportato dal Sunday Times questa settimana, nel Regno Unito sono le donne che continuano a svolgere 70% del lavoro domestico, anche se la maggior parte di loro lavora a tempo completo e un terzo guadagna più del proprio compagno.

Le percentuali sulla divisione del lavoro non ci dovrebbero stupire, perché seppure l’Inghilterra dimostra non essere quel paradiso dei uguaglianza che alcuni immaginavano, in Italia le cose vanno ancora peggio. Secondo indagini Istat del 2010, analizzate da Daniela Del Boca in “Valorizzare le Donne Conviene”, il 76% del lavoro domestico ricade sulle spalle delle italiane, che spendono in media 5 ore e venti minuti al giorno in queste attività (contro 1 ora e 35 minuti dei loro compagni: la percentuale più bassa d’Europa).

Perché?

L’interpretazione tradizionale di questo fenomeno è legata alla differenza tra gli stipendi dei coniugi: le donne guadagnano in genere meno dei loro compagni, quindi il loro potere di negoziazione all’interno della coppia sarebbe inferiore e si troverebbero quindi a dover compensare il gap salariale con lo svolgimento di compiti supplementari rispetto ai loro compagni.

A quanto sembrano suggerire i dati dell’ESRC le cose non sarebbero cosi semplici, perché anche quando guadagnano più degli uomini, le donne continuerebbero a farsi carico in modo prevalente dei compiti domestici. Più precisamente, secondo numerosi studi realizzati negli Stati Uniti ( magistralmente analizzati da Cordelia Fine in “Maschi = femmine. Contro i pregiudizi sulla differenza tra i sessi”), la disuguaglianza nella divisione dei compiti domestici si riduce (a favore delle donne) in modo proporzionale alla riduzione del gap salariale tra i partners, ma solo quando è l’uomo a guadagnare più della donna. Quando è lei a guadagnare di più, le ore che dedica al lavoro domestico crescono in modo proporzionale al gap salariale tra i due.

I sociologi americani definiscono questo fenomeno come “gender deviance neutralization”: le donne, per neutralizzare la devianza dalle norme tradizionali di genere e alleviare la tensione generata nella coppia da tale devianza, si dedicherebbero quindi ancora maggiormente ai compiti domestici per cercare di recuperare il ruolo di “brave mogli”.

Esistono anche interpretazioni più fantasiose e pseudo-scientifiche di questo fenomeno. Secondo John Gray, autore del bestseller Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, il lavoro domestico farebbe biologicamente bene alle donne perché stimolerebbe l’ aumento del livello di ossitocina, l’ormone che regola il ciclo mestruale e sarebbe responsabile di innamoramento, autostima e empatia. Secondo Gray, quindi, le donne che lavorano fuori casa in ruoli tradizionalmente maschili sarebbero naturalmente portate a dedicare molte ore allo svolgimento delle attività domestiche, al fine di recuperare il livello di ossitona perso durante il giorno e ritrovare quindi il benessere fisico e psicologico. Inutile dire che queste affermazioni non solo non hanno nessuna base scientifica, ma sono contraddette dal buon senso e dall’esperienza. Anche senza analisi di laboratorio, qualsiasi donna che abbia stirato una camicia o lavato due piastrelle di pavimento si sarà accorta che autostima e empatia (in particolare nei confronti del compagno seduto davanti alla televisione) non aumentano grazie allo svolgimento di questi compiti, anzi.

Comunque sia, una cosa è certa: nonostante l’indipendenza economica rappresenti una componente necessaria nel cammino all’empowerment femminile, non può da sola colmare disuguaglianze che hanno le loro radici nella cultura delle relazioni di genere e hanno conseguenze non solo sulla vita delle donne, ma dell’intera società.

Servono quindi politiche pubbliche che aiutino la società a mettersi in cammino verso l’uguaglianza di genere. Laddove esistono, infatti, politiche che favoriscono una divisione più equa dei compiti nella coppia, per esempio la licenza di paternità obbligatoria, come in Svezia, le donne lavorano meno ore a casa e, con buona pace di Gray, si dichiarano più felici che, per esempio, in Italia. Laddove ci sono strutture pubbliche di qualità per l’attenzione ai bambini, poi, come in Francia, le donne non solo sono più produttive, ma fanno più figli.

Ancora una volta, insomma, non possiamo lasciare fare solo alla mano invisibile del mercato, ma dobbiamo trovare soluzioni politiche e sociali alla disuguaglianza di genere dentro e fuori dalle mura domestiche. Azioni di questo tipo beneficerebbero non solo le donne (che, rappresentando meta della popolazione, dovrebbero pur sempre essere un gruppo d’interesse non trascurabile), ma l’intera società, rendendola più produttiva e più fertile.

Standard & Poor e la nostra economia a metà. Daniela Del Boca su perché valorizzare le donne conviene, ora più che mai

10 Lug

Standard & Poor ha tagliato il rating dell’Italia, allo stesso tempo dichiarandola e rendendola un Paese meno propizio in cui investire. IMU e politiche economiche del governo sono citate come ragioni immediate per il downgrade, eppure la situazione economica italiana si potrebbe leggere anche in un altro modo. L’Italia è un Paese in cui metà della popolazione (proprio quella metà con le migliori performance scolastiche e accademiche) non viene valorizzata. Sto parlando delle donne, che si trovano ad affrontare oggi discriminazione sul lavoro, gap salariale e una ripartizione del lavoro famigliare tale che obbliga molte a lavorare, diciamo così, nel tempo libero.

L’economia italiana è insomma come una bicicletta che cerca di andare avanti, anche in salita, con una gomma sempre sgonfia.

Questo è il tema su cui scrive da anni brillantemente Daniela del Boca, Professoressa di Economia del Lavoro all’Università di Torino e Direttrice del CHILD-Collegio Carlo Alberto, economista riconosciuta internazionalmente per il suo lavoro su occupazione femminile e  politiche per le famiglie. Non solo. Daniela è anche una donna assolutamente accessibile e onesta, con un’incredibile capacità di produrre studi che, oltre ad essere accademicamente inattaccabili, offrono soluzioni reali per promuovere l’uguaglianza di genere e migliorare la condizione delle donne, soprattutto quelle italiane.  Nell’articolo pubblicato pochi giorni fa su InGenere insieme a Chiara Pronzato e Giuseppe Sorrenti, per esempio, Daniela mostra che conciliare ristrettezze di bilancio e aumento nella provvisione di posti nido è possibile. Come? Con criteri di selezione e tariffe.

Ho voluto fare una piccola intervista a Daniela, per approfondire questo e altri temi e cercare di capire meglio come uscire da una situazione che ci vede ultimi, in Europa Occidentale per condizione femminile. Le sue risposte vi sorprenderanno per la chiarezza e la coincisone. Leggere per credere.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, le donne che lavorano in Italia sono aumentate di 110,000 unità rispetto a un anno fa, anche se questo aumento riguarda soprattutto in part-time involontario e le professioni poco pagate. Cosa ti dicono questi numeri?

Dicono molto sulla pesantezza della crisi, mentre nella prima fase della crisi dal 2008 al 2010 l’occupazione femminile era restata ferma o in lieve diminuzione, dal 2011 in poi con l acuirsi della crisi il numero delle donne che lavora è aumentato ma lavorano le donne meno istruite e con redditi inferiori a cui prima non conveniva lavorare. Le donne funzionano da lavoratore “aggiunto”, entrano per compensare le predite di reddito dei capofamiglia che spesso hanno perso lavoro. In questi stessi anni aumentano anche le famiglie dove il capofamiglia è donna.

Scrivi spesso della relazione tra offerta di asili nido e occupazione femminile. Nello studio pubblicato da te e Daniela Vuriqualche anno fa, (e ripreso nel libro Valorizzare le Donne Conviene, scritto insieme a Letizia Mencarini e Silvia Pasqua e pubblicato dal Mulino), si mostra che la offerta di strutture pubbliche gratuite per l’infanzia porterebbe al 75,5% l’impiego femminile. Pensi che queste cifre siano valide ancora oggi?

Sì. Porterebbe ad un forte aumento della offerta di lavoro cioè delle donne disponibili a lavorare. Un risultato del genere sé stato riportato anche per la Germania dove infatti negli ultimi anni il numero degli asili è aumentato di più del doppio. In Italia invece il numero dei nidi è restato stabile anzi in questi ultimi anni ha subendo gli effetti delle ridotte risorse a disposizione delle regioni e dei comuni.

Uno degli ostacoli culturali al lavoro femminile è la convinzione, radicata in molti italiani, che i bambini soffrano se non è la mamma a prendersi cura di loro. Molti studi dimostrano, invece, che laddove la presenza materna è sostituita da asili nido di qualità, lo sviluppo psico-cognitivo dei bambini migliora, invece di peggiorar, soprattutto per le famiglie di basso reddito. Perché le mamme italiane continuano dunque a credere di essere cosi insostituibili?

Forse oggi meno mamme ci credono, ma i nidi sono ormai disponibili solo per certe fasce di popolazione e sempre più costosi (dati i tagli alle spese dei Comuni) quindi è difficile avere accesso al nido. La vicinanza geografica dei nonni in Italia ha inoltre reso possibile un’alternativa meno costosa. Dai dati inglesi recenti emerge però che la cura al nido ha un impatto più importante di quello della cura dei nonni.

Moltissime donne invocano part-time e telelavoro come strumenti necessari per la conciliazione tra famiglia e lavoro. Addirittura i 10 saggi hanno parlato del telelavoro come una delle due misure per favorire l’occupazione femminile (l’altra sarebbero gli incentivi fiscali alle famiglie). Eppure tu scrivi che il part-time, per come lo si pratica in Italia, sta diventando una “trappola di genere”. Consideri che il telelavoro potrebbe diventare lo stesso?

Queste forme di lavoro a tempo ridotto o lavoro a distanza possono funzionare in periodi della vita in cui si ha bisogno di tempo addizionale per altre attività studio, cura dei figli degli anziani. Tuttavia possono trasformarsi in trappole di genere, se non si possono ritrasformare in lavori “regolari” e se vengono proposte in modo sistematico prevalentemente alle donne.  Per quanto riguarda il part time durante il periodo della cura dei figli, in altri paesi come per esempio in Svezia ambedue i genitori prendono congedi insieme a part-time o telelavoro cosi nessuno esce completamente dal mercato del lavoro.

Dopo aver letto Daniela, verrebbe da chiedersi perché, con le soluzioni a portata di mano, la politica continui a commettere sempre gli stessi errori, di fatto condannando l’Italia a competere nell’economia internazionale con metà della popolazione perennemente in riserva. La risposta sta, a mio parere, nella presenza, finora limitata, di donne nelle posizioni di potere, soprattutto donne capaci di portare avanti l’agenda femminile, o come scritto in Valorizzare Le Donne Conviene: “La causa della stasi, negli ultimi decenni, delle rivoluzioni delle donne italiane è forse dovuta al fatto che la rivoluzione nella politica non è ancora cominciata”.

Chissà che questo downgrade non serva a ricordarci, ancora una volta, che senza la popolazione al completo non si va avanti e che, proprio a causa della crisi, non c’è mai stato momento migliore per iniziare a investire nelle donne.

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