Una delle ragioni per cui non abbiamo ancora trovato soluzioni alla violenza sulle donne è che spesso perdiamo tempo partendo dall’effetto, invece che dalla causa, responsabilizzando la vittima, invece che il carnefice. E’ così che si insegna alle donne a non vestirsi in un certo modo o parlare con certe persone, invece di insegnare agli uomini a rispettare le donne.
Lo hanno capito Marina Catucci e Roberto Vincitore, che ho incontrato qualche giorno fa a New York per parlare di Besame Mucho, il documentario che stanno preparando per analizzare la violenza sulle donne dalla prospettiva di chi la fa. Un’idea scomoda sicuramente, ma innovativa e assolutamente necessaria.
Secondo dati dell’ONU, una donna su tre in Italia è vittima di violenza e nella maggior parte dei casi non denuncia chi l’abusa. Senza parlare delle vittime di violenza psicologica o verbale. Per la sua pervasività, è chiaro che la violenza sulle donne non è un crimine isolato, ma rappresenta una malattia dell’intera società e come tale va affrontata, cercando una cura a partire (anche) dalle menti dei carnefici.
Da qualche parte cercano già di farlo. Sulla pagina web dell’ufficio per la prevenzione della violenza domestica dello Stato di New York c’è una sezione speciale dedicata a “capire chi abusa”. Non giustificare, non assolvere, ma capire. Per fare sì che oltre ad essere puniti, i violenti si responsabilizzino delle proprie azioni ed inizino un cammino di recupero, attraverso, per esempio, la partecipazione obbligatoria a programmi di riabilitazione psico-comportamentale. Non tutti sono convinti dell’effettività di questi programmi. Alcuni ne questionano l’impatto, altri sostengono sia necessario integrarli con altre azioni, tese al coinvolgimento della comunità e al reinserimento lavorativo. Quello che è certo è che è impossibile pensare di risolvere un problema cosi pervadente come la violenza domestica solo con programmi punitivi.